E’ con grandissima gioia ed emozione che ospito nel mio blog questa intervista a Natalia Pazzaglia, una viaggiatrice come me che ad un certo punto ha sentito il bisogno di dare una nuova e più completa dimensione al viaggio trasformandolo in un modo di dare, e sopratutto di ricevere, facendolo diventare un cammino interiore che l’ha cambiata per sempre.
Calcutta è frutto del caso o di una tua scelta precisa? Era la tua prima volta in India o conoscevi già questo paese?
Era la mia prima volta in India, e non conoscevo nessuno: un mio professore dell’università era originario di Calcutta e mi consigliò di andar lì, anche perché quello che cercavo non era l’India turistica o da viaggio organizzato, ma un esperienza autentica di vita, che volevo unire ad un periodo di volontariato. Anche una delle mie migliori amiche, medico, andata a Calcutta, per prestare servizio in un ospedale locale: conoscendomi, mi suggerì di andare.
Come sei venuta in contato con l’associazione presso la quale hai prestato volontariato?
In cosa consisteva la tua attività di volontariato?
Ho prestato inizialmente servizio presso un orfanotrofio per bambini disabili e successivamente a Prem Dan, un centro di accoglienza per malati e moribondi presi dalla strada. Il servizio veniva deciso sulla base delle necessità quotidiane e consisteva principalmente nell’accudire i malati: dal fare il bucato ad aiutare i pazienti a mangiare (molti avevano ferite gravi o hanno perso l’ uso delle mani), dall’occuparsi della loro igiene personale al far loro compagnia cercando di rallegrare le loro giornate (principalmente a gesti, dato che nessuno parlava inglese e in india ci sono più di 23 idiomi nazionali). Molti pazienti avevano gravi malattie e necessitavano di cure mediche continue: soprattutto ai volontari a lungo termine capitava spesso ad affiancarsi alle suore anche nelle medicazioni.
Come si svolgeva la tua giornata tipo a Calcutta?
La mia giornata cominciava presto: alle 5 e trenta uscivo di casa per avviarmi verso la casa delle suore, dove cominciavo la giornata con la messa (facoltativa), poi colazione con tutti i volontari (tra i trenta e gli ottanta a seconda dei periodi dell’anno) e camminata verso i rispettivi centri di servizio. Dalle 8 alle 13 si lavorava, con una pausa tutti insieme alle 1030 ( con chai (thé dolce indiano) e biscotti): il pomeriggio era libero: le suore consigliano di non sovraccaricarsi nel servizio e raccomandano di lavorare solo mezza giornata (almeno nelle prime settimane di ambientamento). Il pomeriggio si perdeva in chiacchierate/ passeggiate/visite culturali o turistiche per la città. E’ incredibile quanto sia facile stringere belle relazioni con gli altri volontari, e in breve ci si ritrova ad essere un gruppo di amici.
Qual è il ricordo più vivido che ti rimane di questa esperienza?
Mi ricordo una giovane ragazza, poco più grande di me, con gravissime malattie all’ apparato gastrointestinale e respiratorio. Le suore l’avevano raccolta dalla strada, come quasi tutti gli altri, ma non avevano potuto né effettuare tutti i controlli medici ne’ procurarsi medicinali adeguati (le cure mediche sono molto care in India e, vista l’emergenza demografica e la povertà, sono praticamente prerogativa delle classi abbienti). La accudii per giorni, senza mai scambiare una parola (le faceva troppo male parlare) finché una mattina trovai sul suo letto un’altro paziente.
Non ebbi bisogno di chiedere: la suora che lavorava in quel reparto mi guardò e mi disse: “God still loves the world thought me and you today. Non importa che sìa morta: è andata in cielo sentendosi amata”.
Che cosa ti ha lasciato e come ti ha cambiato questa esperienza di vita?
La esperienza a Calcutta e’ Stato l’inizio di un viaggio interiore, la molla che mi ha fatto guardare, e imparare ad amare, tutto quello che mi è stato dato. Ho capito tante cose, di me è del rapporto con gli altri, ed ho “ridisegnato” i miei sogni e le mie aspirazioni. Dopo due mesi di volontariato a Calcutta ho capito che si può, si deve fare del bene con tutti e in tutti i luoghi, cambiando il mondo cominciando da dove si è. E ho imparato che non è tanto importante quello che si fa, ma l’ amore con cui lo si fa.
Poi ho cominciato a guardare oltre la superficie e ad ascoltare oltre i rumori.
“Quello che facciamo è solo una goccia nell’oceano, ma se questa goccia non ci fosse all’oceano mancherebbe”[1]. Questo mi resterà di quei due mesi di battaglie interiori, di sofferenza e urla silenziose contro la sofferenza, in un viaggio interiore catartico.
Non importa quanto facciamo, né dove, né con chi; non importa che sia a Calcutta, in Burundi, alla Stazione Termini o in un ufficio ai Parioli. E non importa nemmeno quali frutti ci darà: non adesso. Il granello di senape diventerà un albero, ma forse non è ancora il momento.
Quello che importa è l’amore con cui avremo fatto tutte queste cose.