Volontariato a Calcutta

E’ con grandissima gioia ed emozione che ospito nel mio blog questa intervista a Natalia Pazzaglia, una viaggiatrice come me che ad un certo punto ha sentito il bisogno di dare una nuova e più completa dimensione al viaggio trasformandolo in un modo di dare, e sopratutto di ricevere, facendolo diventare un cammino interiore che l’ha cambiata per sempre.

Con grande trasporto e sentimento, Natalia ci racconta la sua esperienza di volontariato a Calcutta e tutte le paure, la fatica, ma anche la gioia e i ricordi indelebili che ha portato a casa con se.
Un invito a vivere il viaggio come percorso di apprendimento e una riflessione sul senso della condivisione. 
 
 
 
Parlaci della tua ultima esperienza di volontariato a Calcutta, da dove è nata l’idea di intraprendere questo percorso?
Ho sempre creduto che ci sia un progetto per la vita di ciascuno di noi, un filo che lega insieme tutte le nostre esperienze: credo sia questo filo che mi ha potato a Calcutta. In India sono arrivata grazie a un libro, Siddharta, e a un quadro, di monaci buddisti in cammino.  Il libro me l aveva regalato mio fratello a sedici anni, il quadro me lo ero regalato, dopo un periodo difficile, giurando a me stessa che in India sarei andata, un giorno. Così due anni fa, mentre terminavo la tesi per il mio master in relazioni internazionali e mi domandavo cosa ne sarebbe stato di me nel grigio futuro lavorativo, capii che era il momento di fare questa esperienza. 


Calcutta è frutto del caso o di una tua scelta precisa? Era la tua prima volta in India o conoscevi già questo paese?
Era la mia prima volta in India, e non conoscevo nessuno: un mio professore dell’università era originario di Calcutta e mi consigliò di andar lì, anche perché quello che cercavo non era l’India turistica o da viaggio organizzato, ma un esperienza autentica di vita, che volevo unire ad un periodo di volontariato. Anche una delle mie migliori amiche, medico, andata a Calcutta, per prestare servizio in un ospedale locale: conoscendomi, mi suggerì di andare.

Come sei venuta in contato con l’associazione presso la quale hai prestato volontariato?


Una volta decisa Calcutta come meta, mi venne spontaneo pensare alle suore di Madre Teresa. Sono credente e, sebbene non avessi una conoscenza approfondita dell’opera delle suore, ne conoscevo l’attività e ho pensato fosse l’occasione giusta per me. Ho fatto delle ricerche su internet scoprendo che ci sono dei gruppi di volontari italiani che vanno una volta all’anno per prestare servizio: mi sono messa in contatto con un paio di loro e ho recuperato informazioni e consigli.

In cosa consisteva la tua attività di volontariato?
Ho prestato inizialmente servizio presso un orfanotrofio per bambini disabili e successivamente a Prem Dan, un centro di accoglienza per malati e moribondi presi dalla strada. Il servizio veniva deciso sulla base delle necessità quotidiane e consisteva principalmente nell’accudire i malati: dal fare il bucato ad aiutare i pazienti a mangiare (molti avevano ferite gravi o hanno perso l’ uso delle mani), dall’occuparsi della loro igiene personale al far loro compagnia cercando di rallegrare le loro giornate (principalmente a gesti, dato che nessuno parlava inglese e in india ci sono più di 23 idiomi nazionali). Molti pazienti avevano gravi malattie e necessitavano di cure mediche continue: soprattutto ai volontari a lungo termine capitava spesso ad affiancarsi alle suore anche nelle medicazioni.

Come si svolgeva la tua giornata tipo a Calcutta?
La mia giornata cominciava presto: alle 5 e trenta uscivo di casa per avviarmi verso la casa delle suore, dove cominciavo la giornata con la messa (facoltativa), poi colazione con tutti i volontari (tra i trenta e gli ottanta a seconda dei periodi dell’anno) e camminata verso i rispettivi centri di servizio. Dalle 8 alle 13 si lavorava, con una pausa tutti insieme alle 1030 ( con chai (thé dolce indiano) e biscotti): il pomeriggio era libero: le suore consigliano di non sovraccaricarsi nel servizio e raccomandano di lavorare solo mezza giornata (almeno nelle prime settimane di ambientamento). Il pomeriggio si perdeva in chiacchierate/ passeggiate/visite culturali o turistiche per la città. E’ incredibile quanto sia facile stringere belle relazioni con gli altri volontari, e in breve ci si ritrova ad essere un gruppo di amici.

Qual è il ricordo più vivido che ti rimane di questa esperienza?
Mi ricordo una giovane ragazza, poco più grande di me, con gravissime malattie all’ apparato gastrointestinale e respiratorio. Le suore l’avevano raccolta dalla strada, come quasi tutti gli altri, ma non avevano potuto né effettuare tutti i controlli medici ne’ procurarsi medicinali adeguati (le cure mediche sono molto care in India e, vista l’emergenza demografica e la povertà, sono praticamente prerogativa delle classi abbienti). La accudii per giorni, senza mai scambiare una parola (le faceva troppo male parlare) finché una mattina trovai sul suo letto un’altro paziente.
Non ebbi bisogno di chiedere: la suora che lavorava in quel reparto mi guardò e mi disse: “God still loves the world thought me and you today. Non importa che sìa morta: è andata in cielo sentendosi amata”.

Che cosa ti ha lasciato e come ti ha cambiato questa esperienza di vita? 
La esperienza a Calcutta e’ Stato l’inizio di un viaggio interiore, la molla che mi ha fatto guardare, e imparare ad amare, tutto quello che mi è stato dato. Ho capito tante cose, di me è del rapporto con gli altri, ed ho “ridisegnato” i miei sogni e le mie aspirazioni. Dopo due mesi di volontariato a Calcutta ho capito che si può, si deve fare del bene con tutti e in tutti i luoghi, cambiando il mondo cominciando da dove si è. E ho imparato che non è tanto importante quello che si fa, ma l’ amore con cui lo si fa. 

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Mi erano state dette tante cose prima di partire: che sarebbe stata dura, che sarebbe stato difficile, che non avrei retto lo sforzo, la diversità culturale, lo sporco, il traffico, la povertà.Mi era stato detto che Calcutta sarebbe stata “un pugno nello stomaco”, che avrei solo voluto prendere il primo aereo per tornare a casa.
Nei primi due giorni ho pianto, cercando rifugio contro il rumore senza sosta, contro la povertà incomprensibile di chi vive per strada, contro le capre, le mucche, la sporcizia, la gente che fa pipì agli angoli delle strade.
Poi ho cominciato a guardare oltre la superficie e ad ascoltare oltre i rumori.
Ho iniziato a riconoscere la voce dei muezzin, le campane della chiesa di San Salvatore e i sonagli della caprette che vagano per strada. Ho cominciato ad affezionarmi stradine strette della città vecchia, animate da venditori di the’, frutta e dolcetti; mi sono lasciata toccare dalla sincerità e dall’essenzialità di una vita tanto distante dalla mia vita di prima. Ho cominciato il servizio dalle suore ed i miei occhi sono cambiati: lavorando con loro ho sperimentato la forza dell’amore e dell’accoglienza. Ho imparato che la malattia, la sofferenza, la povertà possono essere non solo accettate, ma anche capite e accolte, e trasformate in feritoie da cui far passare la luce.
Cosa mi resterà dei miei due mesi in India, con le suore di Madre Teresa?”
Quello che facciamo è solo una goccia nell’oceano, ma se questa goccia non ci fosse all’oceano mancherebbe”[1]. Questo mi resterà di quei due mesi di battaglie interiori, di sofferenza e urla silenziose contro la sofferenza, in un viaggio interiore catartico.
Non importa quanto facciamo, né dove, né con chi; non importa che sia a Calcutta, in Burundi, alla Stazione Termini o in un ufficio ai Parioli. E non importa nemmeno quali frutti ci darà: non adesso. Il granello di senape diventerà un albero, ma forse non è ancora il momento.
Quello che importa è l’amore con cui avremo fatto tutte queste cose.
Natalia Pazzaglia
www.nataliapazzaglia.com