Parlare di New York è difficile e impegnativo tanto è vasta la materia e infinite le possibilità di visita che la Grande Mela riserva. Visitarla è sempre un’emozione, vederla per la prima volta è speciale, perché in realtà a New York tutti ci siamo già stati, conosciamo l’inconfondibile skyline di Manhattan e le strade stipate di gente e di taxi gialli, immagini viste e riviste in film e telefilm. Quando ci si arriva per davvero, è come diventare i protagonisti di uno di quei film.

New York è adrenalinica, vitale, eccitante, glamour, gli aggettivi si sprecano per questa metropoli simbolo del sogno americano.
Ma NY sa essere anche intima e raccolta, e sa persino commuovere. E’ quello che mi è successo visitando Liberty Island ed Ellis Island, due isolotti a poca distanza da lower Manhattan.

La visita a questi luoghi rappresenta la destinazione ideale per un day trip lontani dal caos metropolitano, e un tuffo nella storia, che qui diventa anche nostra. Per arrivarci basta prendere i traghetti in partenza dal molo di Battery Park a pochi passi da Wall Street, il cuore finanziario della città. La traversata in traghetto è di per sé un viaggio che offre una spettacolare vista sullo skyline di Manhattan: da qui si ha la netta percezione della densità dei grattacieli, tanto stipati in pochi metri quadri che sembrano poter sprofondare in mare da un momento all’altro come se tutto quell’acciaio e vetro fossero troppo pesanti per  l’esile lembo di terra che li sorregge.

Devo ammettere che a Liberty Island sono arrivata piuttosto prevenuta, convinta che la sua famosissima inquilina mi avrebbe delusa, talmente famosa da risultare scontata. Invece la Statua della Libertà, anche se non enorme come molti mi avevano già detto, incanta con quel viso dai tratti perfetti e armonici ed uno sguardo che trasmette fierezza e sagacia.
Nell’intento del suo progettista, Eiffel, doveva rappresentare l’indipendenza americana e penso che l’obiettivo sia stato centrato in pieno perché la sua espressione seria e fiera lascia trasparire l’animo di una nazione fondata su sogni e coraggio.
Ma la vera perla della giornata è Ellis Island, l’isola che dal 1894 al 1954 venne usata come stazione di smistamento per gli immigranti.
Oggi l’edificio originale, magistralmente restaurato, è il Museo dell’Immigrazione; l’enorme Registry Room, col soffitto a volta, teatro dove speranza e disperazione si sono tante volte intrecciate, è stata lasciata vuota, a parte qualche banco dove sedevano gli ispettori. Accanto una serie di stanze spiegano con interessanti fotografie e testi l’iter al quale dovevano sottoporsi gli immigrati per la prima ispezione: le stanze rivestite di piastrelle bianche mi ricordano più una prigione o un istituto per malati piuttosto che l’anticamera di una nuova vita e mi domando quale immensa ansia debba aver provato tutta quella gente mentre i medici decidevano la loro idoneità.
Mi aggiro per le sale in silenzio per non disturbare la memoria di tutti quelli che passarono di qui con alle spalle l’addio al loro paese, davanti il sogno di un nuovo inizio.
Arrivati alla grande Sala di Registrazione, l’emozione tocca il momento più alto: milioni di americani possono far risalire le origini della loro famiglia a un uomo, una donna o un bambino che passarono per questa stanza; i migranti accedevano alla sala attraverso le “Scale della Separazione” che segnavano il punto di divisione per molte famiglie e conoscenti verso diverse destinazioni; provo a immaginarli, uomini stanchi dal lungo viaggio attendere pazientemente il fila il loro turno, donne dai volti tirati che tengono per mano i loro bambini e guardano verso il marito, negli occhi la paura di vedere infrangersi tutte le speranze di una vita migliore per la loro famiglia. Provo a immaginare l’ansia che devono aver provato e il sollievo quando finalmente i funzionari dell’immigrazione davano il loro lascia passare.

Le altre sale illustrano le storie di questa gente: fotografie, testi esplicativi, piccoli oggetti domestici, oggetti usati per il lungo viaggio e persino le registrazioni delle voci originali. Storie di sogni, speranze, sconfitte, separazioni e incontri, vite che mi scorrono davanti agli occhi, un mosaico di piccoli momenti che hanno forgiato un paese e disegnato destini. 
Al primo piano c’è la mostra “La popolazione d’America”, che narra quattro secoli di immigrazione americana, offrendo un ritratto dei migranti: chi erano, da dove venivano, perché emigravano. Qui ci sono anche dei computer attraverso i quali si può accedere all’enorme archivio dei migranti e cercare i nomi di amici e parenti emigrati, per rintracciare un segno tangibile del loro passaggio. Quando si rintraccia un nome conosciuto che appartiene al proprio albero genealogico, d’improvviso tutta questa storia non è più quella degli altri ma diventa la nostra.

Il centro era stato progettato per accogliere 500.000 immigrati all’anno ma nella prima parte del secolo ne arrivarono  più del  doppio, una moltitudine di persone che solcò queste stanze portando con sé le loro vite, i loro ricordi, le loro tradizioni impastati di sogni e speranze per una vita nuova. 
E’ qui che l’America affonda le sue radici, ed è sempre qui che il Vecchio continente ha posato nuove fondamenta, consegnando parte dalla sua gente a una nuova storia.