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La Cambogia ho scelto di raggiungerla via terra, un lungo e polveroso viaggio di quasi dieci ore in pullman per coprire i poco più di 400 chilometri che separano Bangkok da Siam Reap, la cittadina che sorge accanto ai templi di Ankor. Un viaggio che trascende la semplice dimensione di attraversamento di una frontiera per diventare un trapasso da un pianeta ad un altro, il passaggio dal mondo civilizzato della Thailandia, fatto di lunghe strade asfaltate contornate da campi coltivati, a quello selvaggio della Cambogia, dove le strade scompaiono per lasciare spazio a polverose e dissestate vie di terra, che la pioggia ciclicamente trasforma in fiumi di fango.

Arrivando dalla Thailandia il mio primo assaggio di Cambogia è Poipet, la località di frontiera dove bisogna armarsi di pazienza per attendere l’espletamento delle lunghe formalità doganali, che dopo svariate e snervanti ore di attesa si riduce ad un semplice timbro che un qualche sonnolento impiegato doganale stampiglia sul passaporto degnandoti a mala pena di uno sguardo. Inganno l’attesa osservando il mondo attorno a me, un universo fatto di bambini urlanti che si aggrappano ai malcapitati turisti per ottenere penne, gomme da masticare o qualsiasi altro oggetto che abbia l’aria occidentale; uomini che trascinano carretti carichi di ogni merce, donne sedute fuori dall’uscio di casa intente a preparare intrugli difficili da chiamare cibo; mi passa davanti un camion carico ben oltre l’altezza del rimorchio e sulla cui sommità stanno appollaiati dei passeggeri: mi chiedo come abbiano fatto ad arrampicarsi fino a lassù!
Finalmente tutti i viaggiatori arrivati con il mio stesso autobus da Bangkok passano la dogana e ripartiamo, ma presto il nostro viaggio è di nuovo interrotto. La pioggia torrenziale che cade già da qualche ora ha dissestato le strade e un ponte ha ceduto; dobbiamo aspettare che arrivi un autobus più piccolo che possa avventurarsi per le strade divenute fiumi di fanghiglia; dopo quella che a me sembra un’immensità arriva finalmente il nuovo autobus; ripartiamo ma vista la velocità imposta dal fondo stradale scivoloso mi chiedo se non faremmo prima ad andare a piedi; dietro al finestrino mi sfila davanti la campagna cambogiana, interminabili distese di campi e qua e la qualche contadino intento a lavorare con l’aratro trainato dai buoi: sembra una scena tratta da film ambientato nel passato ma quella che scorre oltre il finestrino è la Cambogia vera, un mondo così diverso e lontano dal mio; lungo la strada incrociamo tante capanne di lamiere e legno da cui escono bambini che si precipitano in strada al passaggio degli autobus dei turisti sperando di racimolare qualche caramella o qualche penna. Sono talmente tanti che spesso l’autobus è costretto a fermarsi per attendere che l’entusiasmo dirompente della giovane folla si plachi e ci lascino passare.
Una selva di grandi occhi neri mi osservano dalla strada, occhi che trasmettono la stessa meraviglia e gioia che leggo nei volti dei bimbi occidentali, ma un universo separa questi bambini dai nostri: mi chiedo se questi andranno mai a scuola, se avranno mai un lavoro, se vedranno mai una grande città, il mare, le montagne. Mi domando se questo paese sarà in grado di dare loro un futuro. L’autobus riprende la sua corsa ma per qualche metro ancora i bambini ci inseguono e nell’aria riecheggiano parole come “candy” o “pen” che diventano quasi una cantilena che piano piano si smorza.
Cala la sera e il buio e la pioggia incessante e copiosa rendono più difficile proseguire, la strada si fa sempre più stressa, le ruote del nostro autobus passano a filo del ciglio, guardo giù preoccupata, il rischio che l’autobus cada nel fossato è alto. Mentalmente mi maledico per aver scelto di raggiungere la Cambogia via terra, bastava poco più di un’ora di volo per arrivare a Siem Reap da Bangkok. Ma oramai sono qui e non posso che sperare di arrivare tutta intera a destinazione.

D’improvviso l’autobus si ferma, guardo fuori ma subito la speranza di essere arrivati svanisce di fronte al paesaggio di campagna che il buio lascia intravedere  L’autista ci informa che di fronte a noi il ponte, che poi non è altro che una serie di assi di legno accostati, è crollato per metà della sua larghezza, dobbiamo attraversarlo a piedi e dall’altra parte c’è un altro autobus che ci porterà a destinazione. Ci carichiamo gli zaini in spalla e ci incamminiamo verso il ponte, ridotto ad un’asse di legno infangata e scivolosa della larghezza di non più di cinquanta centimetri. Guardo il nostro accompagnatore titubante, sono terrorizzata all’idea di scivolare e cadere nel fiume che ci scorre sotto ai piedi ma non ho scelta: la mia strada verso Ankor Wat passa di qui. Attraverso il ponte a passi lenti ma decisi e in un attimo sono dall’altra parte, dove mi attende il nostro accompagnatore con la mano tesa e un sorriso stampato sul visto: i cambogiani non si lasciano toccare dagli imprevisti, li accettano con grande serenità d’animo; in un paese senza strade non ti puoi permettere di innervosirti se un ponte cede.
Finalmente risaliamo sull’altro autobus e dopo altre due ore di pioggia e fango raggiungiamo il centro di Siem Reap, dove ci attendono i gestori di alcune guest house per proporci l’alloggio. Scelgo quello con la faccia più simpatica, lo seguo e in pochi minuti arriviamo alla guest house, mi sistemo nella mia stanza, semplice ma confortevole, e sprofondo esausta in un sonno profondo.
L’indomani mi sveglio con i rumori che provengono dalla cucina dove il nostro ospite sta preparando la colazione. Dopo un pasto a base di frutta e riso, decido di dare uno sguardo al paese in attesa che arrivi la mia guida per i templi di Ankor Wat.
Siam Reap è un semplice paese fatto di case, baracche e strade polverose, frequentato dai turisti  grazie alla sua vicinanza con Angok, l’immenso complesso di templi Khmer divenuto un sito archeologico di inestimabile valore storico e di rara suggestione.
Mi dirigo verso l’animato mercato dall’altra parte della strada: ospitate sotto una serie di baracche in lamiera, varie bancarelle espongono frutta, verdura e qualche oggetto d’artigianato. A colpirmi sono i volti della gente, sereni e cordiali, pronti al sorriso; questa gente non ha nulla, vive in capanne spoglie e umide in un cittadina in mezzo al nulla, eppure sembrano avere la cosa più preziosa, un magnifico sorriso stampato sulla faccia. Dialogare con loro è impossibile, a parte le guide turistiche qui nessuno parla inglese ma sembra che la comunicazione verbale sia superflua; una donna mi accoglie sorridente mentre mi avvicino al suo banchetto, mi guarda con dolcezza e con un gesto della mano mi mostra la sua merce, semplici gioielli in legno dipinto. Mi porge dei bracciali intrecciati in bambù  sono bellissimi nella loro semplicità ma ancora più belli sono il sorriso e gli occhi teneri di questa donna anziana, il cui volto, segnato profondamente dalle rughe, esprime una grazia e una tenerezza infiniti. I suoi modi mi conquistano e decido di acquistare i braccialetti ma non potendo chiederle quanto vuole estraggo qualche dollaro dalle tasche e glieli porgo; con le sue mani noccolute la donna prende una moneta, delicatamente mi chiude la mano lasciando il resto dei soldi all’interno  del mio palmo e mi guarda con gli occhi pieni di gratitudine sfoderando un meraviglioso sorriso sdentato: uno dei più bei sorrisi che ricordi, il volto rugoso più dolce che abbia mai visto. Quella donna avrebbe potuto prendere tutti i pochi dollari che le avevo porto ma con la dignità di chi non ha nulla, mi chiede solo pochi spiccioli. Conservo ancora quei braccialetti e ogni volta che li guardo penso a lei.
Mi avvio verso la guest house e nell’alzare lo sguardo verso la strada vedo un mare di biciclette che mi viene incontro: sono gli uomini e le donne che si avviano verso il lavoro nei  campi; qui nessuno ha la macchina, pochi il motorino, la maggior parte della gente si sposta in bicicletta. Nel controluce radente del mattino diventano sagome nere che avanzano lentamente sulla strada polverosa in un silenzio surreale interrotto solo dallo stridere delle ruote sulla terra. L’immagine di questo esercito silenzioso di biciclette che mi viene incontro è uno dei ricordi più vividi ed emozionanti che ho della Cambogia.
Arrivo alla guest house e mi siedo ad aspettare la mia guida che mi porterà ai tempi di Ankor, ma questa è un’altra storia e merita un altro post.