Riccione, una sonnolenta mattina di gennaio, la sveglia suona alle sette, mi preparo velocemente e scendo a far colazione in hotel. Guardo l’orologio e mi accorgo di avere ancora mezzora prima che parta il treno che mi poterà in fiera a Rimini per un’altra lunghissima giornata di lavoro.

Fuori l’aria è frizzante, fresca ma non fredda, non sembra nemmeno inverno. La prima luce del mattino si fa breccia tra le nuvole, finalmente un raggio di sole dopo due giorni di pioggia, la Romagna mi ha riservato un’accoglienza grigia, forse oggi vuole recuperare. Cammino lungo un viale Ceccarini deserto, ci sono solo un paio di bar aperti; è difficile rintracciare tra le serrande abbassate di questa strada silenziosa una minima parvenza della vita che va in scena durante la stagione estiva. Ma io la preferisco così, avvolta da questa quiete assoluta; il suono dei miei passi riecheggia per la via, guardo i miei stivali col tacco basso e penso soddisfatta che oggi non dovrò patire male ai piedi come ieri, quando ho avuto la malsana idea di mettere i tacchi.

Rialzo lo sguardo e cerco il mare, mi chiedo se già dal centro si vede: ho sempre adorato il mare d’inverno e questa è un’ottima occasione per vederlo, mi darà la carica per affrontare la giornata. Ma in fondo alla via vedo solo altre case; proseguo e finalmente arrivo sul viale lungo mare, deserto e silenzioso, il marciapiede ancora pieno di pozzanghere della pioggia del giorno prima. Guado verso la costa, è strano il mare è lì a pochi metri ma non lo vedo e non lo sento.  Gli stabilimenti balneari hanno un’aria di desolazione, nessuna luce, nessuna sedia, sembra che su tutto sia calato un velo di immobilità, che ogni cosa sia sprofondata in un lungo sonno. Mi dirigo verso uno dei vialetti che portano alla spiaggia ma presto il passo è sbarrato da una recinzione; al di là una striscia di sabbia ammassata in una lunghissima duna scherma la vista dell’orizzonte. Finalmente sento il suono del mare, sembra lontano, un ruggito distante; oltre la duna scorgo un riflesso, guardo meglio e mi rendo conto che è l’acqua che fa da specchio e riflette la luce radente del mattino. Salgo su una pila di piastrelle ammassate coperte di sabbia bagnata e finalmente lo scorgo, eccolo lui è li. L’hanno recintato, come un animale in gabbia, ma è proprio in questa dimensione di cattività che finalmente l’Adriatico mi mostra il suo volto più autentico: non è il mare ammaestrato che lambisce le spiagge affollate d’estate, curate e rastrellate, con sdraio e ombrelloni perfettamente allineati ma un mare agitato, vivo, energico.
Ora la spiaggia è solitaria, selvaggia, il bagnasciuga coperto di alghe che la corrente porta disordinatamente a riva; le nuvole basse, ancora cariche di pioggia sembrano incombere sull’acqua rendendola di un colore grigio blu; è esattamente così che dovrebbe essere, acqua e sabbia, il fragore delle onde che scivolano a riva, cielo e nuvole e nulla più.
Penso che se dietro a me non ci fossero hotel e cemento ma solamente campagna e pineta, se non ci fosse questa recinzione che delimita la spiaggia, ne le dune erette dall’uomo per tenere a bada i venti dell’inverno, questo luogo avrebbe tutto un altro sapore. Ascolto lo sciabordio regolare e grave delle onde, l’aria fresca del mattino mi accarezza il viso, chiudo gli occhi e immagino la spiaggia deserta difronte a me, nessuna recinzione, nessun ostacolo tra me e il mare, solo sabbia e acqua a perdita d’occhio. Riapro gli occhi e penso  che tra qualche mese le serrande dei bagni si rialzeranno, i bar riapriranno, piano piano il lungomare e la spiaggia torneranno ad essere frequentati, dapprima poche persone, poi sempre di più fino alla follia della piena estate, quando non rimarrà nemmeno metro quadro libero e lungo il bagnasciuga si vedrà solo una folla immensa di gente. Ma oggi è diverso, oggi il mare è un deserto di onde in movimento, energia pura che si riversa sulla spiaggia lasciandosi dietro alghe e conchiglie; ora c’è spazio solo per nuvole e vento, silenzio e solitudine. E’ un paesaggio che trasmette malinconia, ma io trovo che questo sentimento, nelle giuste dosi, sia bello, aiuta a ricordare e a rivivere emozioni passate, a metterle in fila, a rivalutarle, a dar loro il giusto peso, aiuta ad imparare a convivere con i propri ricordi, col proprio passato. E’ bello ogni tanto lasciarsi cullare tra le braccia della malinconia per risentire dentro di sé l’emozione pungente di un momento passato.
Saluto con un cenno il mare, mi volto e ritorno  lentamente sui miei passi, verso i miei impegni, ringraziando mentalmente l’Adriatico per questo lungo, intenso momento, di mare d’inverno.